Home Actor Antonio Dikele Distefano HD Photos and Wallpapers October 2021 Antonio Dikele Distefano Instagram - Al parco giocavo con le mie sorelle. Martedì pomeriggio dopo scuola. Io che ero diverso l’ho imparato stando in mezzo agli altri. Ci guardavano con la coda dell’occhio le prime volte che sentivano il mio nome, quando la maestra o il medico facevano fatica a pronunciare quelle consonanti vicine e posavano l’accento sulla “e” sbagliata. Quando leggendo la città in cui ero nato, sorridendomi, mi dicevano “Ma allora sei italianissimo”, “Sei più italiano di me”. Come se attribuire una cittadinanza occidentale fosse un complimento. Come se dire davanti a tutti, con il sorriso stampato in volto, che non ero un africano, mi rendesse più normale. “Per loro l’Africa è un paese” diceva zio Eric. Quando penso a lui lo immagino sempre con una Guinnes in mano. Dimenticavano, mentre provavano a essere simpatici e amichevoli, che non spettava a loro dirmi chi fossi. Analizzavano le mie origini, il mio nome e il numero della mia generazione. “Io non sono niente” avrei voluto dirgli e quando rispondevo che non sapevo se sarei rimasto in Italia per sempre, si comportavano come se la cosa fosse giustificata. Un’idea di me stesso a quell’età non l’avevo ancora e avrei voluto trovare la forza di non voler a tutti i costi farmi accettare. Capire che potevo esistere anche senza il consenso del prossimo. Avere il coraggio di reggere la solitudine e urlare in faccia a questo Paese che anch’io non lo volevo, che il sentimento era reciproco. Lo spirito fascista italiano, quando mio padre si lamentava della sua condizione, gli ricordava che doveva essere contento di quello che aveva, che doveva stare al suo posto senza il diritto di pretendere. “Sei fortunato” avrebbero voluto urlargli in faccia quando mangiava nei loro ristoranti, quando cercava posto sui loro bus, mentre diceva ai suoi figli al parco che potevano correre quanto volevano ma di non andare oltre il recinto.

Antonio Dikele Distefano Instagram – Al parco giocavo con le mie sorelle. Martedì pomeriggio dopo scuola. Io che ero diverso l’ho imparato stando in mezzo agli altri. Ci guardavano con la coda dell’occhio le prime volte che sentivano il mio nome, quando la maestra o il medico facevano fatica a pronunciare quelle consonanti vicine e posavano l’accento sulla “e” sbagliata. Quando leggendo la città in cui ero nato, sorridendomi, mi dicevano “Ma allora sei italianissimo”, “Sei più italiano di me”. Come se attribuire una cittadinanza occidentale fosse un complimento. Come se dire davanti a tutti, con il sorriso stampato in volto, che non ero un africano, mi rendesse più normale. “Per loro l’Africa è un paese” diceva zio Eric. Quando penso a lui lo immagino sempre con una Guinnes in mano. Dimenticavano, mentre provavano a essere simpatici e amichevoli, che non spettava a loro dirmi chi fossi. Analizzavano le mie origini, il mio nome e il numero della mia generazione. “Io non sono niente” avrei voluto dirgli e quando rispondevo che non sapevo se sarei rimasto in Italia per sempre, si comportavano come se la cosa fosse giustificata. Un’idea di me stesso a quell’età non l’avevo ancora e avrei voluto trovare la forza di non voler a tutti i costi farmi accettare. Capire che potevo esistere anche senza il consenso del prossimo. Avere il coraggio di reggere la solitudine e urlare in faccia a questo Paese che anch’io non lo volevo, che il sentimento era reciproco. Lo spirito fascista italiano, quando mio padre si lamentava della sua condizione, gli ricordava che doveva essere contento di quello che aveva, che doveva stare al suo posto senza il diritto di pretendere. “Sei fortunato” avrebbero voluto urlargli in faccia quando mangiava nei loro ristoranti, quando cercava posto sui loro bus, mentre diceva ai suoi figli al parco che potevano correre quanto volevano ma di non andare oltre il recinto.

Antonio Dikele Distefano Instagram - Al parco giocavo con le mie sorelle. Martedì pomeriggio dopo scuola. Io che ero diverso l’ho imparato stando in mezzo agli altri. Ci guardavano con la coda dell’occhio le prime volte che sentivano il mio nome, quando la maestra o il medico facevano fatica a pronunciare quelle consonanti vicine e posavano l’accento sulla “e” sbagliata. Quando leggendo la città in cui ero nato, sorridendomi, mi dicevano “Ma allora sei italianissimo”, “Sei più italiano di me”. Come se attribuire una cittadinanza occidentale fosse un complimento. Come se dire davanti a tutti, con il sorriso stampato in volto, che non ero un africano, mi rendesse più normale. “Per loro l’Africa è un paese” diceva zio Eric. Quando penso a lui lo immagino sempre con una Guinnes in mano. Dimenticavano, mentre provavano a essere simpatici e amichevoli, che non spettava a loro dirmi chi fossi. Analizzavano le mie origini, il mio nome e il numero della mia generazione. “Io non sono niente” avrei voluto dirgli e quando rispondevo che non sapevo se sarei rimasto in Italia per sempre, si comportavano come se la cosa fosse giustificata. Un’idea di me stesso a quell’età non l’avevo ancora e avrei voluto trovare la forza di non voler a tutti i costi farmi accettare. Capire che potevo esistere anche senza il consenso del prossimo. Avere il coraggio di reggere la solitudine e urlare in faccia a questo Paese che anch’io non lo volevo, che il sentimento era reciproco. Lo spirito fascista italiano, quando mio padre si lamentava della sua condizione, gli ricordava che doveva essere contento di quello che aveva, che doveva stare al suo posto senza il diritto di pretendere. “Sei fortunato” avrebbero voluto urlargli in faccia quando mangiava nei loro ristoranti, quando cercava posto sui loro bus, mentre diceva ai suoi figli al parco che potevano correre quanto volevano ma di non andare oltre il recinto.

Antonio Dikele Distefano Instagram – Al parco giocavo con le mie sorelle. Martedì pomeriggio dopo scuola.
Io che ero diverso l’ho imparato stando in mezzo agli altri. Ci guardavano con la coda dell’occhio le prime volte che sentivano il mio nome, quando la maestra o il medico facevano fatica a pronunciare quelle consonanti vicine e posavano l’accento sulla “e” sbagliata. Quando leggendo la città in cui ero nato, sorridendomi, mi dicevano “Ma allora sei italianissimo”, “Sei più italiano di me”. Come se attribuire una cittadinanza occidentale fosse un complimento. Come se dire davanti a tutti, con il sorriso stampato in volto, che non ero un africano, mi rendesse più normale. “Per loro l’Africa è un paese” diceva zio Eric. Quando penso a lui lo immagino sempre con una Guinnes in mano. Dimenticavano, mentre provavano a essere simpatici e amichevoli, che non spettava a loro dirmi chi fossi. Analizzavano le mie origini, il mio nome e il numero della mia generazione. “Io non sono niente” avrei voluto dirgli e quando rispondevo che non sapevo se sarei rimasto in Italia per sempre, si comportavano come se la cosa fosse giustificata. Un’idea di me stesso a quell’età non l’avevo ancora e avrei voluto trovare la forza di non voler a tutti i costi farmi accettare. Capire che potevo esistere anche senza il consenso del prossimo. Avere il coraggio di reggere la solitudine e urlare in faccia a questo Paese che anch’io non lo volevo, che il sentimento era reciproco. Lo spirito fascista italiano, quando mio padre si lamentava della sua condizione, gli ricordava che doveva essere contento di quello che aveva, che doveva stare al suo posto senza il diritto di pretendere. “Sei fortunato” avrebbero voluto urlargli in faccia quando mangiava nei loro ristoranti, quando cercava posto sui loro bus, mentre diceva ai suoi figli al parco che potevano correre quanto volevano ma di non andare oltre il recinto. | Posted on 29/Aug/2021 16:56:43

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Antonio Dikele Distefano Instagram – quella sera con le tue amiche sapevo che parlavi di me, si capiva da come mi guardavano. come le ferite aperte avrei voluto toccarti. 
l’ultima volta che ti ho vista, sei sparita nel buio, senza voltarti. 
che poi il dilemma, non è stato lasciarsi, ma lasciarsi andare dopo, non è stato uscire, ma uscirne. il dilemma è chi ti è dentro, chi ti fa pesare il respiro, appena ti affacci fuori. 
chi ti insegna che la felicità è sopravvalutata perché infondo dura solo un attimo.

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